Il Giovedi Grasso

GIOVEDI’ GRASSO: TRADIZIONI E GASTRONOMIA

di Ugo Preti

“A sun gnù a ònzer al spròch – dèmen bèin un bèl malòch – dèmen bèin ‘na bòuna fàtta – a sun gnù a ònzer la mé stàcca “.

Questa filastrocca veniva recitata quando si andava a lardo con lo sprocco.

Per molti, specialmente per i giovani, io credo che quanto ho scritto sinora sia completamente incomprensibile. Perciò ricomincio da capo cercando di essere più chiaro.

Una volta il carnevale, cominciato per S. Stefano in sordina durante le feste natalizie con i primi balli e la stagione teatrale, rinvigorito durante Gennaio dalle fiere di S. Antonio e di S. Geminiano, esplodeva finalmente il Giovedi Grasso con un susseguirsi di veglioni, cene, e manifestazioni folkloristiche e durava fino al mattino del primo giorno di Quaresima quando, insonnoliti, stanchi e con gli occhi cerchiati, ci si inginocchiava davanti al Sacerdote per ricevere sulla testa la cenere in segno di penitenza e purificazione.

Aveva inizio quel lungo periodo di Quaresima che per quaranta giorni ci avrebbe privato di ogni divertimento e costretti ad una lunga astinenza dalle carni e a prolungati digiuni.

Ora questo è solo un ricordo. Usanze superate dai tempi, aggiornate dalla Chiesa.

Ora tutto l’anno è Carnevale, le astinenze-digiuni un lontano ricordo.

Alcuni aspetti di questi passati Carnevali sono ancora impressi nella memoria di noi non più tanto giovani.

Al Giovedi Grasso dunque era tradizione «ònzer al spròch» (ungere lo sprocco). Lo sprocco era un legno aguzzo a forma di spadino che serviva ai ragazzi poveri, generalmente «camarànt» (abitanti in «camera», cioè non addetti ai lavori campestri), per una specie di questua.

I ragazzi, in piccoli gruppi, si recavano nelle varie case dei contadini della zona e giunti davanti alla porta recitavano quella filastrocca citata all’inizio di quest’articolo. Usciva allora la «rezdòra» che infilava in ogni «spròch» un pezzetto di lardo, più o meno grande a seconda della più o meno buona resa data dalla «pcarìa» (la macellazione del maiale).

I ragazzi ringraziavano e si recavano alla casa appresso ripetendo il rituale precedente. In poco tempo riuscivano a riempire «al spròch» e allora contenti andavano a casa loro, fieri di partecipare al sostentamento della famiglia col loro contributo.

Grazie a Dio ora il bisogno di queste piccole cose è scomparso, però è rimasto il detto «ònzer al spròch», anche se col tempo ha cambiato di significato.

Prima di passare a rivangare altre tradizioni è bene ricordare che «Giovedì Grasso» in dialetto del ‘700 si traduce in «Zòbia jòtta». «Zòbia», che ancora sussiste in alcuni dialetti della bassa, è facilmente identificabile con «giovedì», «Jòtta» invece, traducibile ora in «grasso» è rimasto nel nostro dialetto trasformato nella parola «giàtt», con significato di grasso-untuoso.

E proprio «giàu» era il Giovedì Grasso, sia nella raccolta del lardo, come abbiamo visto, sia in cucina dove in tal giorno regnavano le frittelle e le frappe.

Il Muratori nel suo «modusfritellizzandi» ci ricorda come anche ai suoi tempi le frittelle godessero di un onorevole posto nella gastronomia modenese, ma i nostri ricordi sono più vicini e solo al pensare a quelle abbondanti cucchiaiate di colla contenenti uova, riso e farina che venivano immesse nello strutto bollente, tutti i nostri sensi vengono messi in movimento.

L’orecchio sente ancora quello sfrigolìo che faceva emanare dalla padella di rame quell’odore di fritto buono che le nostre narici solo raramente potevano raccogliere.

La vista gode nel ricordare il trasformarsi di quell’informe colla biancastra in una frittella che pian piano s’indorava all’intorno, si gonfiava, prendeva consistenza e, al momento di voltarla, già presentava una forma e un colore, preludio di raffinato boccone.

Il tatto percepisce ancora le scottature prese nel voler per primi raccogliere le brune frittelle croccanti appena tolte dal fuoco e messe in una terrina coperta di carta gialla per farne assorbire l’eccessivo unto, e il gusto, infine, ricorda il piacere di sentire in bocca tale leccornia.

Le frittelle del Giovedì Grasso non erano fatte come le solite (composte di avanzi di minestra, poche uova e molta farina per tenere unito il tutto) che costituivano il riutilizzo degli avanzi delle scarse mense di allora, ma erano fatte con abbondanza di mezzi: riso fresco (non avanzato) uova in abbondanza e formaggio.

Se ne facevano scorpacciate, ma, data la nostra giovane età e date le nostre lunghe corse del pomeriggio (le frittelle si facevano a mezzogiorno) trascorso in parrocchia dove venivano allestiti i tradizionali giochi carnevaleschi (rottura della pignatta, corsa nei sacchi, albero della cuccagna ecc.) si arrivava a sera già pronti per l’altra specialità che ci attendeva: le frappe.

Le frappe, larghe tagliatelle di pasta dolce, profumate col limone, venivano fritte nello strutto (ora si usa l’olio, più delicato ma senz’altro meno saporito).

Queste tagliatelle prima d’immergerle nell’unto bollente venivano intrecciate o annodate o fatte a fiocco in modo che ne risultassero altrettanti grovigli; dopo la cottura venivano ricoperte abbondantemente con zucchero a velo che si ritrovava, dopo averle mangiate, sul naso, sul mento e, la maggior parte sui pantaloni.

Si servivano generalmente con al «lat mél» (panna montata) che poteva essere normale o «inciocolaté» (cioè contenente cacao in polvere messo nella panna quando stava per terminare la montatura).

Arrivavano in tavola generalmente tra una partita e l’altra di tombola che si giocava in famiglia per chiudere in allegria il Giovedì Grasso.

Chi gioca più a tombola? Anche questo è un ricordo. Come un ricordo sono oramai le frappe, le frittelle e il lardo, tenuti tutti lontano dalla lotta contro l’ulcera, il colesterolo, il peso-forma e, diciamo pure la verità, dall’età e dall’esagerata abbondanza che troviamo giornalmente sulla nostra mensa.